Israele uccide un comandante di Hezbollah: escalation a Beirut mentre il Libano apre ai negoziati

Israele colpisce Beirut e uccide il capo di stato maggiore di Hezbollah, Tabtabai, mentre il Libano accetta l’idea di negoziare. Analisi completa dell’escalation e degli scenari.

MEDIO ORIENTE E NORD AFRICA

11/24/2025

Israele–Libano: escalation a Beirut e nuova instabilità regionale dopo l’uccisione di Haytham Ali Tabtabai

Beirut, ore 06:42. L’esplosione è avvenuta all’alba, quando Beirut non è ancora del tutto sveglia e il suo traffico caotico non ha iniziato a riempire le strade. Un bagliore improvviso, poi una colonna di fumo nero: il cuore di Haret Hreik, roccaforte di Hezbollah nei sobborghi sud della capitale, era stato colpito da un raid israeliano. Nel giro di poche ore la notizia è diventata ufficiale: Haytham Ali Tabtabai, una delle figure più importanti dell’ala militare dell’organizzazione sciita, era stato ucciso insieme ad altri quattro combattenti.

La tempistica non è casuale. Due giorni prima, il presidente libanese Joseph Aoun aveva dichiarato che il Libano era pronto ad avviare negoziati — diretti o indiretti — con Israele sotto l’egida delle Nazioni Unite o degli Stati Uniti. Per molti osservatori l’attacco israeliano è una risposta diretta a quel segnale politico: una dimostrazione di forza, un messaggio al governo libanese, ma anche un promemoria a Hezbollah, all’Iran e alla regione intera sul fatto che Israele mantiene l’iniziativa militare.

Un attacco chirurgico con un messaggio politico

Tabtabai non era un comandante qualsiasi. Era una figura chiave nella struttura operativa di Hezbollah, responsabile della pianificazione nel sud del Libano e del coordinamento di unità altamente specializzate. Secondo vari analisti di think tank israeliani e occidentali, la sua morte rappresenta uno dei colpi più significativi contro la leadership militare del gruppo dai tempi della guerra del 2006.

Colpire Haret Hreik, un’area altamente simbolica per Hezbollah, non è soltanto un’operazione militare. È un atto politico. Significa mostrare una capacità d’intelligence profonda, penetrante, e soprattutto l’intenzione di Israele di colpire figure di primo piano senza attendere alcun tipo di negoziato. Ciò nonostante il Libano avesse appena comunicato l’apertura di un nuovo percorso diplomatico.

Per Israele, la fase attuale è favorevole. Un mix di fattori — dall’indebolimento delle rotte logistiche di Hezbollah tra Siria e Libano, alla pressione iraniana affinché il gruppo mantenga una certa prudenza, fino alla paralisi istituzionale del governo libanese — ha creato una finestra in cui il governo israeliano ritiene di poter operare da una posizione di superiorità tattica.

Un Libano fragile, esposto e diviso

Lo scenario interno libanese rende questa escalation ancora più pericolosa. Il Paese vive una delle peggiori crisi economiche della sua storia, con istituzioni paralizzate e un esercito che, pur riconosciuto come una delle poche strutture ancora funzionanti, è sotto pressione politica sia interna che internazionale. Gli Stati Uniti fanno leva su Beirut affinché acceleri il disarmo di Hezbollah — un obiettivo quasi impossibile da realizzare in questo momento — mentre Israele intensifica gli attacchi nel sud del Paese e nella Bekaa Valley.

La popolazione libanese è divisa: una parte vede nelle forze armate nazionali l’unico soggetto legittimo per difendere il Paese; un’altra considera Hezbollah la sola forza capace di contenere Israele. Questa frattura rende quasi impossibile qualsiasi consenso nazionale su un negoziato, un piano di disarmo o un eventuale percorso diplomatico.

A complicare la situazione, nelle settimane precedenti il raid, diversi ministri libanesi erano stati accusati dagli Stati Uniti di non aver fatto abbastanza per limitare l’attività dell’organizzazione sciita. La visita infruttuosa dell’inviato americano Tom Barrack, tornato da Tel Aviv senza avere ottenuto impegni per una de-escalation, dimostra quanto Washington abbia oggi un margine di manovra limitato su Israele.

Israele vede un’opportunità strategica

Secondo numerosi analisti del Carnegie Middle East Center e dell’International Crisis Group, Israele ritiene di trovarsi in un momento favorevole per imprimere una pressione crescente su Hezbollah. Negli ultimi mesi ha intensificato i raid mirati, ha colpito infrastrutture critiche nel sud del Libano e ha mantenuto una postura militare aggressiva anche dopo il cessate il fuoco dello scorso anno.

Da novembre, più di 300 persone sono state uccise in Libano da attacchi israeliani, di cui oltre un terzo civili. E nonostante l’accordo di cessate il fuoco prevedesse il ritiro delle forze israeliane da determinate aree del sud del Paese, Tel Aviv mantiene presidi in almeno cinque punti strategici.

La posizione israeliana, come spesso accade in questi contesti, non è solo tattica ma profondamente politica. Colpire un comandante di alto livello come Tabtabai è un modo per inviare il messaggio che Israele tratterrà qualsiasi leva che gli permetta di controllare l’evoluzione degli eventi, soprattutto ora che percepisce Hezbollah come più vulnerabile rispetto agli anni passati.

Hezbollah tra prudenza, logoramento e pressione interna

Con l’arrivo del nuovo segretario generale, Naim Qassem, Hezbollah ha dimostrato una sorprendente moderazione: dall’ultimo cessate il fuoco ha risposto militarmente a un attacco israeliano soltanto una volta. Questa cautela, però, non deve essere scambiata per debolezza.
Il gruppo conserva ancora un arsenale missilistico imponente, una rete di miliziani esperti e la capacità di colpire profondamente il territorio israeliano. Tuttavia, per la prima volta da anni, diversi analisti parlano di un Hezbollah che preferisce evitare la guerra, non perché non sia in grado di combatterla, ma perché una parte crescente della sua base — provata dalla crisi economica — potrebbe non tollerare un conflitto devastante.

Questo scenario apre un dilemma strategico: Hezbollah non vuole apparire debole, ma non può neanche rischiare di trascinare il Libano in una guerra totale. Israele sembra ben consapevole di questa tensione interna e colpisce proprio nelle intersezioni tra orgoglio, deterrenza e sopravvivenza politica.

Il ruolo degli Stati Uniti e dell’Iran

Gli Stati Uniti spingono per un contenimento del conflitto, ma allo stesso tempo sostengono la posizione israeliana più di quanto non avvenisse negli anni passati. Washington vede nel Libano un fronte critico del confronto più ampio con l’Iran e, pur non volendo un conflitto esteso, considera la pressione su Hezbollah uno strumento necessario per contenere l’espansione dell’influenza iraniana nella regione.

L’Iran, dal canto suo, sta vivendo un momento particolare: da un lato cerca di consolidare i rapporti con Riyadh e stabilizzare il fronte mediorientale; dall’altro non può permettere che la propria immagine di potenza regionale venga messa in discussione. Perciò sostiene Hezbollah, ma lo invita a evitare mosse che potrebbero degenerare.
Teheran teme che un conflitto totale possa danneggiare le sue posizioni strategiche in Siria, Iraq e Yemen, oltre a compromettere eventuali canali diplomatici con gli Stati del Golfo.

Uno scenario regionale in bilico

L’uccisione di Tabtabai a Beirut rappresenta una delle operazioni israeliane più significative degli ultimi vent’anni. Il fatto che sia avvenuta in un momento in cui il Libano aveva apertamente discusso la possibilità di negoziare con Israele la dice lunga sulla strategia di Tel Aviv: la diplomazia, in questo momento, sembra non rientrare tra le sue priorità.

Il rischio più immediato non è una guerra totale, ma una guerra limitata, prolungata e imprevedibile, in cui Israele colpisce selettivamente obiettivi di Hezbollah e quest’ultimo risponde con altrettanta precisione, calibrando ogni gesto per evitare un’escalation incontrollata. Tuttavia, basta un errore di calcolo — un raid più sanguinoso del previsto, una risposta giudicata eccessiva — per trasformare questa danza pericolosa in un conflitto aperto.

Per il Libano, in pieno collasso economico, sarebbe devastante. Per Israele, aprire un altro fronte duraturo mentre la situazione nella regione resta tesa sarebbe rischioso. Per l’Iran, significherebbe dover scegliere tra una risposta limitata o un coinvolgimento più diretto. Per gli Stati Uniti, un nuovo teatro di tensione in Medio Oriente complicherebbe ulteriormente una politica estera già concentrata su più fronti.

Un fronte che sta cambiando natura

La morte di Haytham Ali Tabtabai non è solo un episodio militare: è un indicatore preciso di come il conflitto tra Israele e Hezbollah stia entrando in una fase nuova.
Una fase in cui la deterrenza tradizionale lascia spazio a un confronto a bassa intensità ma ad alto rischio, dove ogni raid, ogni dichiarazione politica, ogni movimento di truppe può ridefinire l’equilibrio dell’intera regione.

Il Medio Oriente non è nuovo a queste dinamiche. Ma oggi, con il Libano allo stremo, Israele più assertivo che mai, gli Stati Uniti coinvolti e l’Iran che cerca un equilibrio difficile, la regione sembra sull’orlo di una trasformazione profonda.

Il punto non è se ci sarà un nuovo conflitto.
Il punto è come e quando inizierà.



Francesco Rodolfi - Analista Geodiplomazia.it - 24/11/2025