Perché Thailandia e Cambogia Combattono di nuovo al Confine: Storia, Accordi Falliti e Scenari Futuri
Scontri armati, raid aerei e droni tra Thailandia e Cambogia riaccendono una disputa di confine storica, nonostante il cessate il fuoco negoziato da Trump a Kuala Lumpur. Un’analisi geopolitica completa delle cause, degli interessi in gioco e dei rischi per la stabilità regionale.
ASIA
Paola Pomacchi
12/9/2025


Thailandia e Cambogia, perché si spara di nuovo al confine
Per l’ennesima volta, il confine tra Thailandia e Cambogia è diventato una linea di fuoco. Negli ultimi scontri sono morti almeno tre soldati thailandesi e sette civili cambogiani, mentre artiglieria, razzi e raid aerei hanno colpito aree abitate a ridosso di una frontiera che, almeno sulla carta, dovrebbe essere regolata da un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti e dalla Malesia.
La cosiddetta “pace di Kuala Lumpur”, sponsorizzata dal presidente statunitense Donald Trump, è stata presentata come un successo diplomatico: ritiro delle armi pesanti, osservatori sul campo, rilascio di prigionieri. Nella pratica, però, l’accordo è stato sospeso da Bangkok in poche settimane, e a dicembre le ostilità sono esplose di nuovo. Per capire perché, bisogna guardare molto oltre l’ultimo scambio di colpi: alla storia del confine, alla politica interna dei due Paesi e alla fragilità degli strumenti di mediazione regionale.
Un confine nato male: eredità coloniale e disputa su Preah Vihear
La linea di confine tra Thailandia e Cambogia non è solo il risultato di coordinate geografiche: è il prodotto di trattati, mappe coloniali francesi e interpretazioni divergenti. Alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, mentre la Cambogia era sotto protettorato francese, Parigi definì i limiti tra il regno siamese (l’attuale Thailandia) e i territori dell’Indocina francese. Quelle mappe sono ancora oggi al centro di dispute legali e politiche.
Il simbolo più evidente di questa ambiguità è il tempio di Preah Vihear, un complesso religioso khmer dell’XI secolo che domina un altopiano roccioso lungo la catena dei monti Dangrek. Nel 1962 la Corte Internazionale di Giustizia assegnò il tempio alla Cambogia, ma la Thailandia ha sempre contestato la sovranità su parte delle aree circostanti, sostenendo che i francesi avessero tracciato la mappa in modo sfavorevole a Bangkok.
Nel 2008, quando Phnom Penh ha chiesto di iscrivere Preah Vihear nel patrimonio mondiale dell’UNESCO, la tensione è esplosa apertamente. In Thailandia si sono mobilitati nazionalisti e opposizioni politiche, mentre i due eserciti schieravano truppe aggiuntive nella zona. Da allora, sparatorie sporadiche e incidenti di frontiera hanno continuato a verificarsi, con morti tra militari e civili da entrambe le parti.
Se si osserva una mappa dettagliata della frontiera nord-occidentale cambogiana, si nota come il confine segua a tratti linee di cresta, corsi d’acqua e segmenti non sempre perfettamente definiti. Questo rende più facile, per i comandi militari, accusare la controparte di aver “sconfinato” o violato accordi di delimitazione locale.
Dal soldato ucciso all’escalation: come si è arrivati agli scontri di luglio e dicembre
La fase attuale della crisi è iniziata con un episodio relativamente circoscritto, ma politicamente incendiario. A maggio, un soldato cambogiano è rimasto ucciso in un contatto armato lungo la frontiera. L’incidente, avvenuto in un’area già sensibile, ha rapidamente fatto precipitare i rapporti bilaterali: ambasciate allertate, dichiarazioni dure su stampa e media, accuse reciproche di aggressione.
Da quel momento, le misure economiche e militari si sono accumulate. La Cambogia ha limitato o bloccato le importazioni di frutta, verdura, energia elettrica e servizi internet dalla Thailandia, colpendo intere comunità di confine che dipendevano da quei flussi. Entrambi i Paesi hanno aumentato la presenza di truppe nelle aree più contestate, trasformando un confine fragile in una vera e propria linea di contatto.
Il primo picco di violenza si è verificato a luglio. Secondo il Consiglio di Sicurezza Nazionale thailandese, quella mattina l’esercito cambogiano avrebbe fatto decollare droni da ricognizione nei pressi delle posizioni di Bangkok e concentrato personale armato di lanciarazzi RPG vicino alla linea di demarcazione. I militari thailandesi dicono di aver provato a comunicare “a voce” per evitare lo scontro, senza successo, e di essere stati poi bersaglio di colpi di arma da fuoco a cui hanno risposto.
Phnom Penh, però, racconta un’altra storia: per le autorità cambogiane, sarebbero stati i soldati thailandesi a violare un accordo locale avanzando verso un tempio khmer–hindu e installando filo spinato attorno alla struttura. L’uso di droni e i colpi “sparati in aria” da parte thailandese sono stati interpretati come atti intimidatori, fino al punto in cui, secondo i cambogiani, non è rimasta altra scelta che esercitare il “diritto di autodifesa”.
Il risultato, al di là della narrativa, è stato quello di una escalation rapida: lanciarazzi multipli BM-21, artiglieria e bombardamenti hanno colpito non solo obiettivi militari, ma anche infrastrutture civili sul lato thailandese, inclusi edifici residenziali, una stazione di servizio e un ospedale. È questo precedente che rende i nuovi scontri di dicembre ancora più pericolosi: sia Bangkok sia Phnom Penh hanno dimostrato di essere disposte a usare sistemi d’arma pesanti in aree densamente abitate.
Versioni inconciliabili: Ubon Ratchathani contro Preah Vihear
Gli incidenti di dicembre seguono lo stesso schema di narrative speculari. Per l’esercito thailandese, il casus belli è stato un attacco cambogiano nella provincia di Ubon Ratchathani, sul lato thailandese del confine, durante il quale un soldato sarebbe stato ucciso da colpi provenienti dalla Cambogia. In risposta, Bangkok afferma di aver colpito “obiettivi militari” lungo la zona contesa con attacchi aerei mirati.
Il ministero della Difesa cambogiano ribalta la prospettiva: sostiene che i primi colpi siano stati sparati dalle forze thailandesi dentro la provincia cambogiana di Preah Vihear, e afferma che Phnom Penh non avrebbe risposto con fuoco diretto, proprio per non compromettere il cessate il fuoco formale.
Nei giorni successivi, l’esercito thailandese ha accusato la Cambogia di aver impiegato sistemi lanciarazzi multipli, droni da bombardamento e droni kamikaze contro le proprie truppe, con razzi caduti vicino (o dentro) aree abitate. Bangkok ha confermato nuovi raid aerei di rappresaglia. La Cambogia, a sua volta, ha denunciato bombardamenti indiscriminati nelle aree civili della provincia di Pursat, sempre lungo il confine.
Questa dinamica evidenzia un problema strutturale: in assenza di una missione di osservazione credibile, con mandato internazionale e capacità tecnica di verificare in tempo reale cosa accade sul terreno, è impossibile stabilire con certezza chi “spari per primo”. Ogni episodio viene immediatamente politicizzato, rilanciato dai media nazionali e inserito in un quadro narrativo che conferma, agli occhi delle rispettive opinioni pubbliche, l’aggressività dell’altro.
La tregua di Kuala Lumpur: ambizione diplomatica, applicazione fragile
Dopo i cinque giorni di combattimenti di luglio, la pressione internazionale è aumentata. L’intervento diplomatico degli Stati Uniti, con Trump in prima linea, e della Malesia come attore regionale, ha portato in ottobre alla firma di una dichiarazione congiunta a Kuala Lumpur. Washington l’ha subito presentata come un “successo personale” del presidente; Bangkok ha preferito un linguaggio più sobrio, definendo il documento una “Joint Declaration” frutto di un incontro tra i primi ministri thailandese e cambogiano.
L’accordo prevedeva il ritiro delle armi pesanti dalla zona contesa, l’istituzione di una squadra di osservatori incaricata di monitorare la linea di contatto e una graduale normalizzazione, a partire dal rilascio di 18 soldati cambogiani detenuti in Thailandia. Sul piano simbolico, si trattava di un tentativo di riportare la gestione del conflitto su binari tecnici e multilaterali, limitando l’uso della forza.
Tuttavia, nel giro di poche settimane la Thailandia ha annunciato la sospensione dell’applicazione dell’intesa. Il primo ministro Anutin Charnvirakul ha dichiarato che la minaccia alla sicurezza “non era realmente diminuita”, accusando la controparte di non rispettare lo spirito dell’accordo. La Cambogia, dal canto suo, ha continuato a proclamare il proprio impegno formale al cessate il fuoco, sostenendo che l’uso della forza da parte delle sue unità fosse solo “ritorno di fuoco” in legittima difesa.
La ripresa degli scontri a dicembre dimostra che la tregua di Kuala Lumpur non è riuscita a modificare le dinamiche sul terreno. L’assenza di meccanismi di verifica robusti, la debolezza politica degli osservatori e la mancanza di fiducia tra le parti hanno trasformato il cessate il fuoco in un riferimento più retorico che operativo.
Leadership deboli e calcolo interno: perché è difficile disinnescare la crisi
In entrambi i Paesi, il confine è diventato un tema profondamente politicizzato. In Thailandia, la classe dirigente è divisa, la scena politica è in continua riconfigurazione e il ruolo dell’esercito resta centrale. Ogni governo teme di essere accusato di cedimento su questioni di sovranità, soprattutto quando la società si è già abituata a una narrativa che vede nella Cambogia un vicino “ostile” sulla questione dei confini.
In Cambogia, la leadership ha costruito gran parte della sua legittimazione interna sulla difesa della sovranità nazionale e sulla capacità di “resistere” alle pressioni esterne. La vicenda del tempio di Preah Vihear è stata a lungo un simbolo di orgoglio nazionale, e qualsiasi percezione di debolezza nelle trattative con Bangkok rischia di essere letta come un tradimento.
Molti analisti regionali sottolineano un elemento comune: manca una figura politica, in uno dei due Paesi, sufficientemente forte da poter “vendere” all’opinione pubblica un compromesso sul confine senza pagare un prezzo interno eccessivo. In assenza di questa capacità di leadership, la tentazione di usare la forza come strumento negoziale rimane alta, e ogni incidente sul terreno diventa un’occasione per riaffermare la linea dura.
Impatto regionale: ASEAN, sicurezza, turismo e percezione internazionale
La ripresa degli scontri non riguarda solo i due protagonisti diretti. L’area del Mekong e l’Indocina nel loro complesso sono attraversate da rotte commerciali, corridoi energetici e flussi turistici che dipendono da una stabilità minima nel Sud-Est asiatico continentale. La crisi di confine, per ora localizzata, rischia di indebolire ulteriormente l’immagine della regione in un contesto in cui si sommano già altri fattori di rischio: tensioni politiche interne, transizioni istituzionali fragili, competizione tra grandi potenze.
L’ASEAN, come organizzazione regionale, si trova ancora una volta di fronte ai limiti del proprio modello: un approccio basato sul consenso, sul non intervento e su una diplomazia discreta, spesso insufficiente quando si tratta di mediare tra Stati membri in conflitto armato. Senza una vera missione di osservazione neutrale sul terreno, dotata di strumenti di monitoraggio e report indipendenti, sarà difficile ricostruire la fiducia.
Sul piano pratico, gli avvisi ai viaggiatori dei governi occidentali raccomandano di evitare le aree entro 50 km dal confine su entrambi i lati. Per la Thailandia, grande destinazione turistica globale, è un danno limitato ma simbolico; per alcune aree della Cambogia, dove il turismo di confine e il commercio locale sono essenziali, l’impatto è più sensibile.
Scenari possibili: congelamento, escalation o vera soluzione monitorata
Il conflitto tra Thailandia e Cambogia potrebbe evolvere lungo tre linee principali. Il primo scenario è quello di un congelamento instabile, in cui gli scontri si attenuano ma la causa strutturale — la disputa sui confini e la mancanza di fiducia — resta invariata. In questo caso, ogni cambio di governo, incidente locale o provocazione isolata potrebbe riaccendere le ostilità.
Il secondo scenario è quello di una escalation vera e propria, magari alimentata da errori di calcolo, da un incidente particolarmente grave con molte vittime civili o da un uso ancora più intenso di droni e artiglieria. Sebbene entrambi i governi abbiano interesse a evitare una guerra aperta, le dinamiche di nazionalismo e legittimità interna potrebbero rendere difficile fermare una spirale una volta avviata.
Il terzo scenario, più auspicabile ma più impegnativo, è quello di una soluzione monitorata, che richiederebbe la presenza di osservatori neutrali, un meccanismo di comunicazione militare diretto e costante e un lavoro politico parallelo sulle rispettive narrative interne. Per arrivarci, servirebbero però due ingredienti che oggi sembrano carenti: volontà politica autentica e leadership sufficientemente solide da gestire i costi del compromesso.
Finché questi elementi non saranno presenti, il confine thailandese–cambogiano resterà una vulnerabilità aperta nel cuore dell’Indocina: un conflitto mai davvero chiuso, pronto a tornare sulle prime pagine a ogni nuova scintilla.
Paola Pomacchi - Analista Geodiplomazia.it - 09/12/2025
