Thailandia–Cambogia: il Cessate il Fuoco annunciato da Trump regge? Escalation Militare e Crisi Regionale
Nonostante l’annuncio di Trump, la Thailandia continua gli attacchi contro la Cambogia. Analisi dell’escalation militare e dei limiti della diplomazia USA.
ASIA
Paola Pomacchi
12/13/2025


Thailandia–Cambogia: il cessate il fuoco di Trump regge solo sui social
Bombardamenti, smentite e una crisi regionale che sfugge al controllo diplomatico
Il cessate il fuoco annunciato da Donald Trump tra Thailandia e Cambogia si è rivelato fragile fin dal primo momento. A poche ore dalla proclamazione della tregua, il conflitto lungo il confine tra i due Paesi del Sud-est asiatico ha ripreso intensità, mettendo in luce una frattura sempre più evidente tra la diplomazia dichiarata e la realtà sul terreno.
Il primo ministro thailandese Anutin Charnvirakul ha chiarito senza ambiguità che Bangkok non intende sospendere le operazioni militari, smentendo di fatto la narrazione proposta dalla Casa Bianca. In un messaggio pubblico, Anutin ha affermato che le forze armate continueranno ad agire “finché non verranno eliminate tutte le minacce alla sicurezza del territorio e della popolazione thailandese”. Una presa di posizione che segna un punto di rottura diretto con l’annuncio di Washington e solleva interrogativi sulla reale capacità degli Stati Uniti di influenzare l’escalation.
Bombardamenti dopo la tregua: la versione di Phnom Penh
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, la tregua annunciata da Trump non ha avuto alcun effetto concreto. Phnom Penh ha denunciato che due caccia F-16 thailandesi hanno colpito obiettivi all’interno del territorio cambogiano anche dopo l’orario indicato come inizio del cessate il fuoco. I bombardamenti avrebbero interessato villaggi, infrastrutture civili e aree turistiche nelle province di confine, inclusa Koh Kong e la regione di Pursat.
Fonti locali parlano di hotel e casinò colpiti, con immagini che mostrano edifici gravemente danneggiati. Anche la marina thailandese sarebbe entrata in azione, aprendo il fuoco dal mare verso obiettivi costieri cambogiani. Sebbene Phnom Penh non abbia segnalato vittime immediate negli ultimi attacchi, il dato umanitario complessivo è allarmante: oltre 20 morti, quasi 200 feriti e circa 600.000 sfollati su entrambi i lati del confine.
Un conflitto che affonda le radici nella storia
Le tensioni tra Thailandia e Cambogia non sono episodiche. Il contenzioso territoriale risale alla definizione dei confini durante l’epoca coloniale francese e si concentra soprattutto attorno a complessi templari millenari, simboli identitari e politici prima ancora che geografici. Ogni riaccensione del conflitto riporta alla luce una rivalità mai completamente risolta, alimentata dal nazionalismo interno e dalla debolezza dei meccanismi multilaterali di gestione delle crisi regionali.
L’accordo firmato a Kuala Lumpur lo scorso ottobre, con la mediazione della Malesia e il sostegno degli Stati Uniti, avrebbe dovuto segnare una svolta. Il testo prevedeva il ritiro delle armi pesanti, l’istituzione di osservatori e una graduale de-escalation. Tuttavia, Bangkok aveva già sospeso unilateralmente l’intesa settimane prima, sostenendo che le condizioni di sicurezza non erano migliorate.
Il ruolo ambiguo degli Stati Uniti
L’intervento diretto di Donald Trump, culminato nell’annuncio di un cessate il fuoco “già concordato”, evidenzia una dinamica sempre più frequente nella diplomazia contemporanea: l’uso della comunicazione politica come strumento di pressione, spesso disallineato rispetto ai fatti sul terreno. La smentita immediata di Bangkok non è solo una questione di orgoglio nazionale, ma segnala un problema più profondo: la ridotta capacità degli Stati Uniti di imporre una linea condivisa anche tra partner formalmente cooperativi.
Particolarmente controversa è stata l’affermazione di Trump secondo cui un’esplosione che aveva ucciso soldati thailandesi sarebbe stata un “incidente”. Dichiarazione respinta con fermezza da Anutin, che ha definito l’episodio un atto deliberato. Questo scarto narrativo rischia di minare ulteriormente la credibilità americana come mediatore imparziale.
Una crisi che guarda oltre il confine
Il conflitto thailandese-cambogiano non è un evento isolato, ma si inserisce in un contesto regionale caratterizzato da instabilità crescente, militarizzazione dei confini e competizione tra potenze esterne. Il Sud-est asiatico è sempre più esposto a dinamiche di sicurezza ibride, dove dispute storiche si intrecciano con rivalità geopolitiche più ampie e con l’erosione delle istituzioni multilaterali.
La riapertura delle ostilità, nonostante un accordo formalmente in vigore, pone una domanda centrale: chi controlla davvero l’escalation? Se gli Stati Uniti non riescono a garantire l’applicazione di una tregua da loro stessi annunciata, e se i governi locali rivendicano una piena autonomia militare, il rischio è che il conflitto diventi cronico, normalizzato e sempre più difficile da contenere.
Diplomazia performativa o fallimento strategico?
La crisi tra Thailandia e Cambogia rivela una verità scomoda: la diplomazia delle dichiarazioni non basta più. Annunciare un cessate il fuoco senza garantirne l’attuazione rischia di trasformare la mediazione internazionale in uno strumento di comunicazione politica, non di gestione del conflitto.
Per il Sud-est asiatico, la posta in gioco è alta. Per Washington, lo è ancora di più. Se la tregua esiste solo nei post sui social e non sul campo, allora il problema non è soltanto regionale, ma sistemico. E la domanda che emerge, inevitabile, è se l’ordine internazionale sia ancora in grado di prevenire le guerre — o solo di commentarle mentre si riaccendono.
Paola Pomacchi - Analista Geodiplomazia.it - 13/12/2025
