Relazioni USA–Cina dopo il vertice Trump–Xi: tregua sui dazi, Taiwan al centro e nuova fase della rivalità
L’incontro Trump–Xi e la telefonata di novembre segnano una fragile tregua USA–Cina. Analisi di dazi, Taiwan e futuro della competizione tra le due potenze.
NORD AMERICAASIA
Gianfranco Bizzacco
12/1/2025


Gli Stati Uniti stanno entrando nella fase del “bargain” con la Cina?
Trump, Xi e la nuova (fragile) tregua tra accettazione e rivalità strategica
Per molti, il faccia a faccia tra Donald Trump e Xi Jinping a fine ottobre in Corea del Sud è stato poco più di una tregua tecnica: un accordo di un anno che abbassa parte dei dazi e congela alcune misure sui controlli all’export. Ma la successiva telefonata del 24 novembre, nella quale Xi ha insistito su Taiwan e ha spinto per l’implementazione rapida dell’intesa, suggerisce che potremmo trovarci davanti a qualcosa di più: l’inizio di una nuova fase nei rapporti USA–Cina.
Per capire cosa sta cambiando, può essere utile la metafora dei “cinque stadi del lutto” applicata alla superpotenza americana di fronte all’ascesa cinese:
Negazione,
Rabbia,
Contrattazione (bargaining),
Depressione,
Accettazione.
Washington ha già attraversato i primi due. Oggi sembra pienamente immersa nel terzo.
1. Dalla negazione alla rabbia: come gli USA hanno scoperto di avere un rivale sistemico
Per due decenni, tra anni ’90 e primi 2000, l’establishment americano ha coltivato l’illusione che l’integrazione economica avrebbe “liberalizzato” la Cina. È la fase della negazione:
ingresso di Pechino nel WTO (2001),
delocalizzazioni massive,
fiducia che la crescita economica avrebbe portato convergenza politica.
Poi sono arrivati tre shock:
La crisi finanziaria del 2008, che ha scalfito l’aura di superiorità del modello occidentale.
L’ascesa interna di Xi Jinping e l’accentramento di potere a Pechino.
Il sorpasso cinese in settori chiave: 5G, terre rare, solare, batterie.
Nel 1985 il PIL cinese valeva circa 310 miliardi di dollari; nel 2024 è arrivato a 18,8 trilioni di dollari, seconda economia mondiale e prima per PIL a parità di potere d’acquisto.
È allora che Washington entra nella fase della rabbia:
stretta sui microchip avanzati e sulle tecnologie sensibili,
narrativa bipartisan sulla “minaccia sistemica” cinese.
Trump ha radicalizzato questo passaggio, portando complessivamente i dazi effettivi su molti prodotti cinesi oltre il 50% e minacciando nel 2025 una tariffa al 100% su tutte le importazioni dalla Cina prima del recente accordo.
2. Il meeting di Busan: una tregua daziaria che assomiglia molto a un “bargain”
Il summit di ottobre a Busan ha prodotto un pacchetto che, letto nei dettagli, somiglia molto a una contrattazione strutturata più che a un semplice cessate il fuoco.
Secondo Reuters e le analisi di China Briefing:
gli USA hanno ridotto il livello medio dei dazi dal ~57% al ~47% su un paniere di beni cinesi, evitando di attivare il temuto 100% generale;
Washington ha dimezzato il dazio al 20% sui prodotti legati ai precursori del fentanyl, portandolo al 10%, in cambio di impegni cinesi più stringenti sul controllo del traffico di queste sostanze verso il mercato americano.
la Cina ha sospeso per un anno nuove e pesanti restrizioni sull’export di terre rare e materiali critici (grafite, gallio, germanio, antimonio) e ha iniziato a rimuovere alcune aziende USA dalle proprie liste di entità “inaffidabili”;
entrambe le parti hanno sospeso per un anno i port fees aggiuntivi sulle navi dell’altro Paese;
Pechino ha accettato di riprendere gli acquisti di prodotti agricoli USA (in particolare soia), un tema chiave per Trump in chiave interna. Dopo la telefonata del 24 novembre, la Cina ha già comprato almeno 10 carichi di soia USA, per circa 300 milioni di dollari.
Sul piano commerciale, il messaggio è chiaro:
👉 non è la fine della rivalità, ma l’inizio di una gestione più contrattata del conflitto economico.
3. La telefonata del 24 novembre: Taiwan al centro del nuovo equilibrio
Se il summit di Busan ha fissato i parametri economici della tregua, la successiva telefonata tra Trump e Xi ha riportato al centro la vera mina geopolitica dei rapporti bilaterali: Taiwan.
Secondo le ricostruzioni di Politico, Guardian e Xinhua:
Xi ha ribadito che il “ritorno di Taiwan alla Cina” è parte integrante dell’ordine internazionale nato dopo la Seconda guerra mondiale, collegando la questione taiwanese alla narrativa sulla vittoria contro il Giappone;
ha avvertito gli USA sui rischi di “interferenze esterne” – in particolare dopo le dichiarazioni della premier giapponese Takaichi, che ha ventilato un possibile intervento militare in caso di attacco a Taiwan;
ha sottolineato la volontà di “implementare pienamente” l’intesa economica di ottobre, presentandosi come partner razionale e orientato alla stabilità;
la Casa Bianca ha confermato la telefonata, ma è stata molto più prudente nel readout ufficiale, offrendo pochi dettagli su Taiwan e insistendo invece sul trade e sulla cooperazione su fentanyl e semiconduttori.
La scelta di Xi di chiamare direttamente Trump – evento relativamente raro nella diplomazia cinese – è significativa:
segnala l’urgenza di consolidare il risultato economico del vertice;
prova a legare la stabilizzazione commerciale a una maggiore “sensibilità” americana su Taiwan;
manda un messaggio a Tokyo, Taipei e agli alleati regionali: la vera partita si gioca ancora fra Pechino e Washington.
4. La fase del “bargaining”: gli USA accettano la potenza cinese, ma provano a fissarne i limiti
L’idea delle “fasi del lutto” applicata alle relazioni USA–Cina è stata ripresa proprio in questi giorni da un’analisi su Foreign Policy, che sottolinea come Washington sia passata da negazione e rabbia a una forma di contrattazione strategica.
Cosa significa, in termini concreti?
Accettazione di fatto della dimensione economica cinese
La Cina è oggi un’economia da 18,8 trilioni di dollari (2024), seconda solo agli USA (circa 29 trilioni). china-briefing.com
Il commercio bilaterale resta enorme: nel 2024 gli scambi di beni USA–Cina hanno raggiunto circa 582 miliardi di dollari, con un deficit per Washington di 295,5 miliardi.
In altre parole: decoupling totale impossibile, de-risking parziale inevitabile.
Gestione selettiva del conflitto tecnologico
Le restrizioni americane sui chip avanzati rimangono;
ma su terre rare, minerali critici e alcuni segmenti industriali si vede un aggiustamento reciproco, più calibrato.
Scambio “sicurezza interna vs. accesso ai mercati”
Washington chiede a Pechino maggiore cooperazione su fentanyl e precursori chimici;
Pechino incassa riduzioni tariffarie e allentamento di alcune pressioni economiche.
Non è una partnership. È un armistizio negoziato fra due rivali sistemici, che accettano di ridurre la temperatura del conflitto per non bruciare i propri interessi economici.
5. Il futuro delle relazioni USA–Cina: tre scenari a medio termine
Guardando oltre la tregua di un anno, si possono delineare tre traiettorie possibili.
Scenario 1 – “Competizione gestita” (il più probabile)
La tregua commerciale viene rinnovata o sostituita con nuovi accordi settoriali.
Continua la pressione USA su tecnologia, investimenti e catene del valore strategiche.
Gli USA consolidano una rete di accordi con alleati in Asia (Giappone, Corea del Sud, ASEAN selezionati), mentre la Cina rafforza RCEP, BRICS e accordi bilaterali.
Taiwan resta contesa, ma nessuna delle due parti vuole arrivare al conflitto aperto.
Scenario 2 – “Rottura controllata”
Una crisi su Taiwan, sul Mar Cinese Meridionale o su cyber e intelligenza artificiale fa saltare la tregua.
Tornano dazi al rialzo e nuove sanzioni.
La cooperazione su fentanyl, clima e stabilità finanziaria salta o diventa marginale.
Scenario 3 – “Accettazione conflittuale”
Gli USA, pur restando militarmente superiori, riconoscono nei fatti la Cina come co-gestore di alcuni spazi regionali (Mar Cinese Meridionale, Asia Centrale, parte dell’Africa orientale).
Si sviluppa una forma di “bipolarismo competitivo” con regole minime condivise.
Al momento, i segnali vanno nella direzione dello Scenario 1:
Washington non è rassegnata all’egemonia cinese, ma sembra aver accettato che la Cina non tornerà più “piccola”.
Per questo il confronto non è più se la Cina debba essere fermata, ma come e dove possa essere contenuta senza far saltare l’economia globale.
6. Conclusione: dall’illusione della vittoria totale alla fatica del compromesso
La telefonata del 24 novembre e la tregua di Busan non segnano la fine della competizione USA–Cina. Segnano piuttosto l’uscita da una fase psicologica:
non è più il tempo dell’illusione (che la Cina potesse diventare una “altra versione degli USA”),
né solo della rabbia (tariffe massicce senza strategia coerente),
ma della fatica del compromesso, in cui si prova a fissare limiti al rivale senza distruggere la relazione.
Se questo percorso porterà, nel tempo, a una vera “accettazione” strutturale della Cina come grande potenza da parte degli Stati Uniti, dipenderà da tre variabili:
l’evoluzione del dossier Taiwan,
la capacità cinese di sostenere una crescita meno sbilanciata sull’export,
la stabilità politica interna americana, con una presidenza Trump notoriamente imprevedibile.
Per ora, la tregua è reale ma temporanea.
La competizione strategica, invece, è destinata a restare.
Gianfranco Bizzacco - Analista Geodiplomazia.it - 01/12/2025
