Venezuela nel mirino: la Nuova Strategia USA di Regime Change sotto Trump e il rischio di una Crisi Regionale
La seconda amministrazione Trump rilancia il cambio di regime in Venezuela. Analisi di strategie, rischi militari e implicazioni per Cuba e l’intero continente latinoamericano.
AMERICA LATINANORD AMERICA
Francesco Rodolfi
12/2/2025


La Nuova Strategia Americana del Regime Change: Il Venezuela come Prossimo Epicentro della Crisi
L’ossessione statunitense per il cambio di regime è una costante che attraversa oltre un secolo di storia. Dai primi interventi nell’emisfero occidentale fino alle operazioni segrete della Guerra Fredda e alle guerre preventive del XXI secolo, Washington ha plasmato la propria identità geopolitica attorno alla convinzione di poter rovesciare governi ostili e sostituirli con esecutivi più allineati agli interessi americani. È una convinzione alimentata da una forza militare senza rivali, da una percezione pervasiva delle minacce e da una fiducia quasi teologica nella capacità degli Stati Uniti di “aggiustare il mondo”.
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, questo paradigma sembra riaffiorare con una forza rinnovata, presentandosi non più come una dottrina coerente ma come una spinta impulsiva, radicata nell’idea che il potere vada esercitato con decisione e senza ambiguità. Al centro di questa nuova fase della politica estera americana si trova un obiettivo prioritario: il Venezuela di Nicolás Maduro, oggi considerato la principale sfida politica e simbolica dell’emisfero occidentale.
Un secolo di regime change: la tentazione costante degli Stati Uniti
La storia dell’interventismo americano è costellata di casi che hanno segnato intere regioni. L’Iran del 1953, il Guatemala del 1954, il Cile del 1973, Panama nel 1989: episodi diversissimi, uniti da un tratto comune, ovvero la convinzione che Washington potesse imporre nuove architetture politiche in nome della stabilità, della lotta al comunismo o di interessi economici vitali. Questa attitudine ha raggiunto il suo apice dopo l’11 settembre, con le guerre in Afghanistan e Iraq, due tentativi di rifondare società complesse attraverso la forza militare – esperimenti culminati in fallimenti costosi, sanguinosi e spesso controproducenti.
Al di là delle differenze ideologiche tra amministrazioni, il presupposto è rimasto sostanzialmente invariato: gli Stati Uniti, in quanto potenza egemone, ritengono legittimo intervento e coercizione quando percepiscono una minaccia alla propria sicurezza o alla propria influenza globale. Tuttavia, i risultati hanno prodotto quasi sempre instabilità, guerre civili, crisi migratorie e un drastico ridimensionamento della credibilità americana.
La nuova amministrazione Trump, piuttosto che prendere le distanze da questa lunga tradizione, sembra intenzionata a reinterpretarla in chiave ancora più muscolare e geopolitica.
Il Venezuela come nuovo teatro di crisi
Nel Mar dei Caraibi si sta sviluppando una situazione in rapida evoluzione che, per intensità militare e retorica politica, non trova precedenti recenti. Washington ha dispiegato un’imponente forza navale composta da dieci navi da guerra, oltre diecimila soldati e la portaerei USS Gerald R. Ford, con il relativo gruppo di combattimento. È la più grande concentrazione militare americana nell’area dai tempi della crisi dei missili del 1962.
Ufficialmente, questo dispiegamento viene giustificato con la necessità di contrastare il narcotraffico venezuelano, descritto dall’amministrazione Trump come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale americana. Tuttavia, la narrativa ufficiale appare sempre meno credibile. Dal punto di vista strategico, è evidente che l’obiettivo non dichiarato sia il rovesciamento del governo Maduro, considerato illegittimo, inefficiente e troppo vicino ad avversari geopolitici come Russia, Iran e Cina.
Il Venezuela, d’altronde, non è un Paese qualsiasi. È uno degli Stati con le maggiori riserve di petrolio al mondo, un attore fondamentale nel gioco energetico dell’America Latina e un punto nodale per la politica estera degli Stati Uniti, soprattutto quando al potere c’è un presidente repubblicano. L’esistenza di un regime antiamericano nel cuore del continente rappresenta, agli occhi del nuovo establishment di Trump, una sfida politica, ideologica e strategica che non può essere ignorata.
Cuba, il vero obiettivo dietro il Venezuela
Per comprendere appieno la logica di Washington, è necessario allargare lo sguardo all’intero bacino caraibico. Il Venezuela, pur essendo una priorità, è anche la chiave per colpire un altro obiettivo storico: Cuba.
Il petrolio venezuelano rappresenta un sostegno vitale per l’economia cubana. Interromperlo significherebbe spingere l’isola verso una crisi ancora più profonda, avanzando quella che da oltre mezzo secolo è la grande ambizione della destra americana: il collasso del castrismo.
La strategia di Trump 2, elaborata dal Segretario di Stato e Consigliere per la Sicurezza Nazionale Marco Rubio, punta infatti a un effetto domino: destabilizzare Caracas per indebolire L’Avana, passando attraverso un’operazione politico-militare che potrebbe assumere forme più drastiche di quelle tentate nel 2019 con Juan Guaidó.
La Casa Bianca sembra convinta che, colpendo Maduro e strangolando lo scambio energetico con Cuba, si possa aprire una crepa irreversibile nel blocco bolivariano. Ma questa visione ignora la complessità delle dinamiche regionali e sottovaluta la resistenza dei regimi interessati.
I rischi enormi di un intervento militare
Un’operazione militare contro un Paese grande, frammentato e instabile come il Venezuela non assomiglia affatto a un raid mirato.
Gli esperti avvertono che un intervento americano potrebbe:
provocare un collasso interno incontrollabile, aggravando la già devastante crisi umanitaria venezuelana;
spingere milioni di nuovi profughi verso Colombia, Brasile e Stati Uniti;
trascinare attori esterni nel conflitto, visto il coinvolgimento di Russia, Iran e Cina nel sostegno a Maduro;
destabilizzare ulteriormente i governi sudamericani, molti dei quali già fragili e polarizzati.
Un attacco americano nel Caribe potrebbe dunque trasformarsi in un conflitto regionale, con potenziali ripercussioni anche al di fuori dell’America Latina.
Trump e la dottrina del potere come soluzione
La visione geopolitica di Donald Trump non si basa sulle convenzioni diplomatiche né sui principi tradizionali del multilateralismo. È una strategia fondata su due convinzioni fondamentali:
che il potere si debba esercitare senza esitazioni e che chi non “si allinea” rappresenti automaticamente una minaccia.
In questo approccio, l’uso della forza non è l’ultima risorsa ma uno strumento da utilizzare in anticipo per “correggere” i comportamenti di Stati considerati ostili. Una visione che riduce la diplomazia a una componente marginale e sposta al centro del processo decisionale gli equilibri di potenza.
In questo quadro, il Venezuela appare come il primo grande test della seconda amministrazione Trump. Un test che, se fallisse, potrebbe avere conseguenze devastanti sia per il Paese sudamericano sia per la stabilità dell’intero emisfero.
L’America Latina di oggi: un continente sull’orlo di una nuova instabilità
La regione vive una fase storica di fortissima polarizzazione. Governi di sinistra e di destra si alternano a ritmo accelerato, rendendo difficile prevedere la posizione dei singoli Paesi in un eventuale conflitto. Nel frattempo, la Cina ha consolidato la sua presenza economica, mentre la Russia ha rafforzato i rapporti con governi come Venezuela, Nicaragua e Bolivia.
Un intervento militare americano potrebbe quindi diventare il detonatore di una crisi diplomatica continentale, con la possibilità di rimettere in discussione tutto il sistema di sicurezza dell’America Latina, le alleanze regionali e i delicati equilibri interni dei Paesi coinvolti.
Un pericoloso déjà-vu per il Venezuela?
La tentazione del regime change continua a esercitare un fascino profondo sui decisori americani. È un passato che ritorna, sotto nuove forme, ma con le stesse ambiguità e gli stessi rischi.
Il Venezuela, in questo nuovo contesto, rappresenta il banco di prova della politica estera di Trump 2 e potrebbe trasformarsi nella crisi più pericolosa dell’emisfero occidentale degli ultimi decenni.
Se la storia recente ha insegnato qualcosa, è che i tentativi di rovesciare governi tramite la forza tendono a generare instabilità permanente.
Ripetere lo schema in un’area sensibile come il Caribe sarebbe un errore potenzialmente storico, destinato a trascinare più attori nel conflitto e ad aggravare una situazione regionale già sull’orlo della frattura.
Francesco Rodolfi - Analista Geodiplomazia.it - 02/11/2025
