Il Sudan è ancora uno Stato? Guerra Civile, Darfur e il Collasso del Potere
Il Sudan è ormai uno Stato fallito? La guerra tra SAF e RSF, le stragi in Darfur e l’ingerenza di Emirati, Russia ed Egitto stanno dissolvendo il paese nel caos.
AFRICA SUB SAHARIANA
Franco Fantera
12/13/2025


Il Sudan esiste ancora?
Sette milioni di persone costrette a fuggire, circa 20.000 morti, una crisi alimentare regionale in rapida espansione e un Paese che scivola verso il collasso. Il Sudan, travolto da una guerra civile brutale e prolungata, sta entrando in una fase in cui la domanda centrale non è più “chi vincerà”, ma se esista ancora uno Stato sudanese in senso politico e funzionale.
Dopo 18 mesi di assedio, El Fasher, capitale del Darfur Settentrionale, è caduta nelle mani delle Rapid Support Forces (RSF). Le immagini che arrivano dalla città parlano di massacri, torture ed esecuzioni di civili, in una regione già devastata dalla carestia. Dall’aprile 2023, lo scontro tra l’esercito sudanese e la milizia guidata dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (conosciuto come Hemedti) ha prodotto oltre 13 milioni di sfollati e ha spinto metà della popolazione in condizioni di insicurezza alimentare. Mentre il Darfur lotta per sopravvivere, l’RSF finanzia la propria offensiva con oro sudanese esportato clandestinamente verso Dubai, beneficiando di sostegno politico e logistico degli Emirati Arabi Uniti.
Il Sudan, ricco di minerali strategici e collocato nel cuore del Corno d’Africa, è diventato un campo di battaglia dove si sovrappongono ambizioni emiratine, russe e occidentali. A pagare il prezzo è la popolazione civile, consegnata a un sistema di violenza e impunità. È in questo contesto che, nel marzo 2024, lo storico Gérard Prunier ha posto una domanda tanto semplice quanto destabilizzante: si può ancora dire che il Sudan esista come Stato?
La guerra non è una rivalità personale: è una frattura storica
Quando il 15 aprile 2023 esplodono i combattimenti a Khartoum tra le Sudanese Armed Forces (SAF) e le RSF, molti media riducono la crisi a una “guerra tra signori della guerra”: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, contro Hemedti, allora vicepresidente. Ma questa lettura è superficiale.
Il conflitto non nasce da una rivalità individuale: affonda le radici nella storia del Sudan e nella sua crisi economica e sociale cronica. È per questo che i combattimenti si sono rapidamente estesi e intensificati, alimentati da un flusso di armamenti: Emirati Arabi Uniti in sostegno alle RSF, Egitto in appoggio alle SAF. Nel frattempo, milioni di persone sono state costrette a spostarsi internamente o a fuggire verso Egitto e Ciad. Il governo stesso si è trasferito a Port Sudan, e oggi ha perso il controllo di una porzione sostanziale del territorio nazionale.
Diplomazia impotente: falliscono ONU, Unione Africana e il “processo di Jeddah”
I tentativi di mediazione di Nazioni Unite e Unione Africana non hanno prodotto risultati. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno promosso colloqui a Jeddah a partire dal maggio 2023, ma i cessate il fuoco annunciati sono stati puntualmente infranti.
La priorità internazionale si è spostata: non più la soluzione politica e militare del conflitto, ma la gestione dell’emergenza umanitaria. Nel frattempo, dopo la caduta delle capitali regionali del Darfur — Nyala, El Geneina e Zalingei — lo scontro si è concentrato su El Fasher, città da circa un milione di abitanti, che ospita (o cercava di ospitare) centinaia di migliaia di sfollati.
La sorte di El Fasher è stata a lungo descritta come uno snodo: se l’esercito fosse riuscito a mantenerne il controllo, avrebbe potuto rallentare l’avanzata RSF; se le RSF avessero occupato la città, avrebbero consolidato la presa sul Darfur. Dopo il ritiro delle SAF da El Geneina a metà novembre, sono riprese anche le stragi contro i Masalit (circa 1.300 morti), e parte dei sopravvissuti ha cercato scampo oltreconfine, in Ciad.
Un Paese “a mosaico”: il Sudan come costruzione imperfetta
Per capire la guerra di oggi bisogna accettare un dato strutturale: come molti Stati africani, il Sudan è il prodotto di stratificazioni storiche e coloniali. Eppure, a differenza di altri casi, la sua formazione segue un percorso specifico: nasce nel 1821 con la conquista di parte del Balad al-Sudan (“terra dei neri”, in arabo) da parte del Khedivato d’Egitto, entità semi-autonoma dell’Impero Ottomano. L’obiettivo dell’espansione di Muhammad Ali era pragmatico e violento: acquisire schiavi neri per l’esercito e appropriarsi di risorse, soprattutto oro.
Il territorio conquistato venne gestito come un sistema duale: un centro coloniale, predatorio e mal amministrato, e periferie trattate come zone solo parzialmente controllate, buone soprattutto per l’estrazione e il saccheggio istituzionalizzato. Il Darfur, sultanato indipendente, verrà occupato dagli inglesi solo nel 1916. Ne risulta un Sudan “a patchwork”, un mosaico fragile, dove le periferie restano subordinate e sfruttate.
Questa fragilità esplode in modo drammatico nel secondo Novecento: il conflitto Nord-Sud (1955–2002) costa tra mezzo milione e un milione di vite. Il Darfur, marginalizzato da Khartoum, resta di fatto una “colonia nella colonia”.
Dal 2011 al collasso: secessione del Sud, crisi del regime e nascita del “potere RSF”
Il 2011 segna uno spartiacque: la secessione del Sud Sudan priva Khartoum di una parte cruciale delle entrate petrolifere e indebolisce il potere di Omar al-Bashir, al governo dal colpo di Stato del 1989. Il suo regime islamista, sempre più corrotto e impopolare, sopravvive con appoggi esterni intermittenti (Iran e Arabia Saudita). Nel 2009 al-Bashir è già ricercato dalla Corte Penale Internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Darfur.
Nel 2013 compie una mossa decisiva: istituzionalizza le Janjaweed, milizia reclutata tra gli arabi Rizeigat, trasformandola in un apparato ufficiale di controllo interno. In Sudan, il termine “arabo” è spesso culturale più che etnico: indica famiglie arabofone e integrate in reti identitarie e sociali specifiche. Le Janjaweed diventano una forza “coloniale domestica”: usata per mantenere l’egemonia territoriale di Khartoum e reprimere insurrezioni, prima in Darfur e poi in altre aree.
Il regime impiega questi combattenti anche all’estero: vengono inviati in Yemen per conto saudita, in cambio di pagamenti significativi. Nel frattempo, la milizia evolve fino a diventare le Rapid Support Forces, con una catena di comando autonoma e un proprio sistema economico.
2019–2021: la rivoluzione fermata e il patto tra esercito e RSF
Nell’aprile 2019 al-Bashir viene rovesciato da un colpo di Stato congiunto SAF-RSF, sostenuto da un’ondata popolare che per mesi ha manifestato pacificamente chiedendo libertà e transizione democratica, pagando un prezzo alto in termini di repressione.
L’alleanza tra esercito e RSF, però, è un compromesso temporaneo. Le SAF rappresentano soprattutto l’élite arabo-nilotica; le RSF sono radicate nei Rizeigat e in dinamiche darfuriane. Hemedti è percepito come “arabo” in Darfur, ma come soggetto periferico e subalterno a Khartoum. Fin dal giorno dopo la caduta di al-Bashir emergono tensioni: entrambe le forze cercano di controllare la transizione e neutralizzare il movimento democratico.
Ottobre 2021: secondo colpo di Stato congiunto. Vengono eliminati gli organi civili della transizione, arrestati esponenti chiave delle forze democratiche, congelate le indagini sui crimini del passato e liberati funzionari del vecchio regime. Le promesse di elezioni per luglio 2023 restano lettera morta: sindacati e associazioni professionali vengono sciolti, diplomatici rimossi, e il premier civile Abdalla Hamdok finisce in esilio.
Oro, Russia e legittimazione internazionale: il carburante della crisi
Nel gennaio 2022 Washington invia Molly Phee per colloqui simbolici con il nuovo potere militare, di fatto normalizzando il golpe. Intanto le vittime tra i manifestanti continuano ad aumentare.
A fine febbraio 2022 Hemedti si reca a Mosca: teme che l’invasione russa dell’Ucraina comprometta i flussi dell’oro. Secondo la ricostruzione, le consegne passano attraverso segmenti dell’intelligence militare (GRU) e arrivano ai vertici del potere russo. Il 2 marzo 2022 il Sudan si astiene all’Assemblea Generale ONU sulla condanna dell’invasione.
Nonostante i legami con Mosca, gli Stati Uniti riprendono l’assistenza economica nel maggio 2022, convinti che la crisi possa essere gestita con risorse e incentivi. Ma la politica interna resta bloccata: i tentativi di dialogo falliscono, cresce l’instabilità e la credibilità internazionale del processo di transizione evapora.
La missione ONU UNITAMS, creata nel 2020 per supportare la transizione democratica, subisce un colpo reputazionale dopo il golpe del 2021. Le Forze di Libertà e Cambiamento (FFC) si ritirano dai dialoghi sponsorizzati anche dall’IGAD, definendoli inaffidabili. Nel frattempo, in Darfur si registrano nuovi massacri.
Nel dicembre 2022 emerge pubblicamente la frattura: Hemedti definisce “un errore” il golpe del 25 ottobre, mentre al-Burhan lo difende. Intanto, nell’Est, l’opposizione Beja denuncia lo sfruttamento illegale dell’oro da parte RSF. Nel febbraio 2023 i Beja arrivano a bloccare la strada verso Port Sudan, vitale per traffici e logistica.
Il 16 novembre 2023, perfino il rappresentante sudanese all’ONU annuncia la fine di UNITAMS, respingendo la proposta del Segretario Generale di una valutazione strategica.
Un’economia catturata dal militare: il “regno dell’oro”
Con il tempo, SAF e RSF hanno condiviso — con diffidenza crescente — le risorse di un’economia sempre più ridotta e sempre più dipendente dall’oro. Negli anni 2010, l’oro diventa la principale voce di export, soprattutto dopo la perdita del petrolio con l’indipendenza del Sud Sudan. La produzione ufficiale nel 2022 è stimata in 18.627 kg, ma è probabilmente sottostimata.
Le RSF controllano miniere chiave e una parte rilevante dell’export clandestino, spesso verso la Russia. Corruzione e fragilità statistica rendono i numeri incerti, ma la tendenza è chiara: la ricchezza bypassa lo Stato e finisce nelle mani degli apparati armati. A differenza del petrolio, l’oro è perfetto per sfruttamento diffuso e contrabbando, soprattutto in contesti di sicurezza deteriorata.
Questo produce un effetto politico devastante: ogni attore etno-politico è costretto a scegliere un campo, SAF o RSF. Nel gennaio 2021 esplodono i primi scontri aperti a El Geneina, territorio dei Masalit: oltre 200 morti e centinaia di feriti. La spirale di violenza accelera.
Islamisti, classi sociali e due legittimità in guerra
Al-Burhan, pur non essendo un fondamentalista, riapre canali con apparati islamisti sopravvissuti al sistema di al-Bashir e libera alcuni esponenti del vecchio ordine. Il conflitto assume così anche una dimensione sociale: l’élite urbana e la classe media avevano visto nella rivoluzione del 2019 una via verso giustizia sociale e superamento del potere islamista-militare; dall’altra parte, Hemedti e le RSF, marginalizzati dall’élite nilotica, considerano il golpe del 2021 come necessario per rompere un monopolio del potere radicato da secoli.
Nel campo RSF, il nemico principale diventano i “kozan” (islamisti), percepiti come custodi di un sistema che li ha usati in Darfur e in Yemen senza mai riconoscerli come pari. Hemedti, deriso per accento e origini, costruisce la propria autonomia diventando il “re dell’oro”, muovendosi al confine tra legalità e criminalità.
Dal 2023–2024, cerca legittimazione internazionale intensificando i contatti con capi di Stato dell’Africa orientale, tra cui Uganda ed Etiopia. Il confronto si cristallizza: due mondi che non condividono più nulla, se non la logica delle armi. La maggioranza dei sudanesi, disarmata, è trascinata nel mezzo.
Emirati, Russia, Wagner e la logistica della guerra
Per comprendere lo scenario, va guardato il ruolo degli Emirati Arabi Uniti, diventati paradossalmente un vettore locale anche dell’influenza russa, e la competizione con l’Egitto, percepito più vicino agli interessi statunitensi.
Negli ultimi decenni gli Emirati hanno costruito proiezione strategica attraverso infrastrutture e logistica, soprattutto con DP World. Porti e terminal in Somaliland, Somalia, Africa occidentale e centrale: una rete marittima che ha implicazioni economiche e militari. In questo quadro, Port Sudan è un nodo ambito.
I piani russi per una base a Port Sudan risalgono all’era al-Bashir. Tra febbraio e aprile 2021, navi russe scaricano equipaggiamenti vicino a Port Sudan, ma vengono allontanate dopo segnalazioni statunitensi. L’interesse emiratino resta.
Con l’estendersi della guerra nel 2023, gli Emirati aumentano l’impegno e avviano una collaborazione con il gruppo Wagner, usando anche canali nella Repubblica Centrafricana per far arrivare armi alle RSF. Alcuni convogli vengono attaccati e saccheggiati lungo il tragitto, segno del caos e della frammentazione locale.
Dopo la morte di Prigozhin, Mosca riorganizza le proprie milizie: emergono competizioni interne tra gruppi russi. Nel dicembre viene annunciata la creazione dell’Africa Corps, tentativo di coordinare l’ombrello operativo. Gli Emirati riducono incertezze grazie alla mediazione logistica di Khalifa Haftar in Libia: trasporto aereo da Bengasi verso piste improvvisate nel Darfur nord-occidentale e operazioni di airdrop.
Le SAF, riposizionate su Port Sudan dopo l’evacuazione di Khartoum, ricevono rifornimenti via mare dall’Egitto, con supporto aereo. Nonostante l’enorme consumo di munizioni, non viene imposto un embargo. Le sanzioni UE contro alcune aziende sudanesi accusate di sostenere l’una o l’altra parte restano misure limitate e senza reale impatto politico.
Verso lo “Stato fantasma”: l’implosione come scenario
Il Sudan sembra scivolare inesorabilmente verso il caos. I supporti finanziari esterni — incluso quello del FMI nel 2021 — non hanno invertito la traiettoria sociale ed economica. Nel frattempo, la violenza in Darfur assume contorni di quasi-genocidio: migliaia di morti non registrati, e una crisi sanitaria e alimentare che diventa strutturale. Episodi di violenza contro comunità migranti e minoranze si moltiplicano; i prezzi dei farmaci, prima della chiusura della maggior parte delle farmacie, aumentano in modo drammatico.
Il Corno d’Africa, regione segnata da Stati fragili e tensioni transfrontaliere, è esposto a un effetto domino. L’Etiopia, spesso descritta come il Paese più stabile dell’area, è attraversata da fratture interne e da rapporti difficili con Egitto e Somalia. In questo scenario, il collasso diplomatico del Sudan non sarebbe un fatto locale: diventerebbe un detonatore regionale.
Ecco perché, nei colloqui inconcludenti di Jeddah, si continua a fingere che il Sudan “esista” come Stato: riconoscerne la morte istituzionale significherebbe accettare l’apertura di una fase di caos peggiore del collasso somalo degli anni Novanta. È una logica già vista: quando l’ONU continuò a riconoscere, a Mogadiscio, strutture di governo la cui autorità non andava oltre pochi isolati della capitale, alimentò una forma di negazione che oggi rischia di ripetersi.
La domanda, allora, resta intatta e più urgente: il Sudan è ancora uno Stato, o è già uno Stato fantasma sostenuto solo dal bisogno internazionale di non dichiararne il funerale?
Franco Fantera - Analista Geodiplomazia.it - 13/12/2025
